Storia: Il Regno di Araucania e Patagonia

Di R. Marhikewun (Aukiñ) Gennaio-Luglio 1990

Gli storici cileni e argentini hanno tentato di convincerci che, con l’indipendenza dalla Spagna, ottenuta dal Cile e dall’Argentina nel 1810, anche il popolo mapuche sarebbe automaticamente stato liberato dal loro nemico e, perciò, da qualsiasi altra minaccia d’incursione straniera. Questo è reso evidente dal modo in cui gli storici hanno usato la nostra orgogliosa resistenza storica come baluardo per la loro indipendenza e adottato gli eroi mapuche come simboli della loro battaglia. Discorsi patriottici dovevano persuadere i mapuche a unirsi nella lotta per l’indipendenza, asserendo che la loro battaglia era la nostra battaglia e che, la vittoria sugli spagnoli sarebbe stata anche una vittoria per i mapuche. Così iniziò la politica “huinca” (non indigeni) di pensiero, parola e di decisioni prese a nostro nome, un atteggiamento portato avanti fino a oggi.

I mapuche, tuttavia, videro la guerra d’indipendenza da una prospettiva completamente diversa. Per loro si trattava di non più che di una zuffa tra gli “huinca”, e qualsiasi schieramento avesse vinto, sarebbe inevitabilmente diventato loro avversario: per secoli, l’atteggiamento “huinca” di disprezzo e derisione verso i mapuche non era cambiato e non c’era nessuna buona ragione per la quale dovesse cambiare allora. Il fatto che i mapuche non si unirono alla guerra d’indipendenza e che, in un atto di umanità, diedero asilo ai monarchici perseguitati, fu considerato dai creoli un atto di “tradimento”. Queste visioni apparentemente contraddittorie, unite ad altri motivi, erano in conflitto con quella assolutamente chiara dei mapuche, i quali rifiutavano la cosiddetta “integrazione” con i repubblicani, considerata un esercizio di mera propaganda. Il punto di vista creolo era anch’esso contraddetto dalla volontà e dalla determinazione mapuche a difendere la loro indipendenza da qualsiasi incursione straniera o “huinca”.

Così, quando il francese Orélie-Antoine de Tounens arrivò in Araucania e Patagonia, si trovò di fronte un paese indipendente le cui genti erano sicure della loro sovranità e che esercitava la propria auto-determinazione come farebbe qualsiasi altra nazione. Erano passati ormai cinquant’anni dall’indipendenza politica di Cile e Argentina dalla Spagna quando, nel 1860, nacque il Regno di Araucania e Patagonia. I nuovi repubblicani si stavano preparando a prendere il controllo del territorio mapuche con la forza. Le attività militari provocatorie sulla frontiera, da entrambi i versanti delle Ande si intensificarono e, in seguito, avvalendosi di atti giudiziari, si appropriarono “legalmente” della terra mapuche. Essi decretarono che i territori mapuche non conquistati erano di proprietà dello stato e tentarono, per mezzo di comunicati parlamentari, di estendere il raggio di azione delle loro leggi nazionali su persone sulle quali non ne avevano la giurisdizione.

La creazione del Regno di Araucania e Patagonia, un territorio che a quel tempo, voglio sottolineare, era parte dell’indipendente nazione mapuche, è stata fino a poco tempo fa, uno tra gli eventi dimenticati e meno conosciuti tra i mapuche di oggi. I Quimches (gli storici mapuche) e i membri più anziani della nostra comunità la ricordano bene, ma entrambi sono attaccati e disprezzati dalla società “huinca”. Il primo gruppo è accantonato, poiché tramandano la loro storia oralmente, e perciò bollati come “non scientifici” e relegati al folkloristico mondo della magia e della leggenda. Il secondo è insultato con termini quali “indianizzato”, in altre parole “incivili” e “rozzi”. Con la precedente non tenuta in conto e la più recente screditata, generazioni di mapuche non avevano nessuna opzione se non quella di accettare la versione ufficiale o, almeno, quella semi-ufficiale, perché stranamente, gli storici “huinca” non potevano accettare i fatti che circondavano la formazione del Regno. Quest’evento, come altri della storia del nostro popolo, è presentato come qualcosa di ridicolo, di non degno di far parte della nostra storia.

La storia dei Mapuche è stata pilotata e inserita nella storia del Cile e dell’Argentina (a seconda della nazione alla quale quel pezzo di terra appartiene ora). Queste storie, che si pretende di assimilare culturalmente, registrano eventi storici che vengono presentati in modo tale che i Mapuche si vergognino dei loro eroi, della loro cultura e delle loro genti. Quei pochi mapuche che hanno avuto modo di investigare su quell’evento storico in modo più dettagliato hanno accettato la sua esistenza, ma alcuni lo classificherebbero come un deplorevole e sfortunato evento o come un mero “incidente storico”, poiché non riescono a concepire che i capi mapuche abbiano riposto la loro fiducia e il destino del loro popolo nelle mani di un “folle” (secondo gli “huinca”). Ma era davvero folle?

La nazione mapuche e i suoi leader potevano immaginare che l’invasione dei colonizzatori era imminente. Fu così che, in un periodo teso sull’orlo della fine dell’indipendenza della nostra nazione, Orélie-Antoine arrivò in Cile (1858). Egli era un fervente ammiratore della nostra impareggiabile difesa della libertà, della nostra lotta contro gli spagnoli che era come se le loro perdite di investimenti, armi e uomini fossero più grandi di quella della conquista dell’America intera. A Quillin, nel 1641, essi furono obbligati a firmare l’unico trattato che riconosceva i confini territoriali di una nazione indigena in tutto il continente. Orélie voleva portare alla ribalta, come avrebbe detto in numerose occasioni, quella nobile razza di eroi. L’approvazione, l’integrazione e, in seguito, la fiducia con la quale le autorità mapuche lo trattarono erano dovute ai suoi meriti, al suo impegno e lealtà verso la nostra causa. È questo che oggi ci fa riconoscere Orélie come un uomo di grande spessore e che lo pone incontrovertibilmente tra i nostri più illustri eroi.

La situazione che il popolo mapuche stava affrontando era critica dato lo squilibrio del loro potere difensivo in relazione alle nuove armi che erano state introdotte dagli eserciti repubblicani. Alleanze, assistenza e riconoscimento internazionale furono sollecitati più che mai. Ma le armi da sole non furono sufficienti nell’etnocentrico mondo occidentale, razzista e offensivamente sciovinista, che ignorava qualsiasi cosa che non si adattasse alla propria concezione di civilizzazione e di cultura. Di fronte a questa realtà i leader mapuche sentirono che era tempo di impiegare una nuova tattica nella promozione e legittimazione della loro nazione nell’arena internazionale.

La monarchia si presentò loro come un’opportunità. Rappresentava l’ultimo passo nella lunga lotta in difesa della loro sovranità e auto-determinazione. Fu proclamata il 17 novembre 1860,assieme con la costituzione e la nomina a re di Orélie-Antoine. La costituzione (rivoluzionaria per quel tempo) garantiva le libertà individuali e l’uguaglianza davanti alla legge, oltre alla piena partecipazione mapuche nelle istituzioni legali, giudiziarie, amministrative e politiche. In effetti, la nuova struttura creata dai mapuche, anche se incoerente con la loro tradizionale organizzazione, garantiva loro ciò che entrambe le repubbliche gli negava. Devo dire che sarebbe logico ritenere che la decisione di accettare leggi occidentali era in contrasto con il fiero temperamento della nostra gente, che aveva guadagnato il rispetto conservando ripetutamente il proprio sistema di governo.

Coloro che credevano che la decisione di accettare uno straniero a decidere le sorti della nostra gente fosse una misura di convenienza, semplice o affrettata, non capivano la natura e il senso comune dello spirito mapuche. I nostri Quimches raccontano che nella regione di Lul-lul Mawidha, all’interno di Temuco, i Mapuche arrivarono da ogni parte della regione (inclusa la parte argentina), i quali, una volta ricevuto il benvenuto dai “loncos” (capi locali), rimasero a discutere per settimane (e questo nel bel mezzo di una guerra). Oggi descriveremmo tale evento come un gruppo di esperti riuniti per una conferenza, un simposio o uno studio di gruppo; essi furono gli unici a fare politica e a pianificare una strategia militare a difesa della nazione. Quindi, i Mapuche non improvvisarono, e le decisioni prese furono ben riflettute, discusse e pianificate.

Se è vero che molti storici, e come loro molti media, sembrarono in generale accettare il perpetuarsi di una visione stereotipata, generata allora intorno alla figura di re Orélie, ci sono anche fatti storici che mostrano tutto ciò come un’assurdità.

Certamente era necessario perpetuare quella visione per disonorarlo ed eliminarne l’importanza e la credibilità, in modo da minare il consolidamento della monarchia. Le autorità cilene, sebbene fossero i mandanti di tale propaganda, in pratica la condussero molto seriamente, tanto che le loro forze di sicurezza s’infiltrarono rapidamente nella monarchia e, come se ciò non bastasse, offrirono una ricompensa di 250 Piastras a chiunque glielo avesse consegnato, vivo o morto.

Riuscirono strategicamente a piazzare la spia Juan Bautista Rosales, una spia al servizio del re; in seguito, durante il processo di Orélie, egli rivelò il suo vero ruolo, quello cioè di Secondo Caporale dello squadrone civile di Nacimiento. Mantenne informati i suoi superiori degli spostamenti di Orélie nel territorio mapuche.

Il 5 gennaio 1862, approfittando della visita del re in un’area vicino al confine, Orélie fu rapito da una truppa militare entrata in territorio mapuche camuffati da mercanti (preti e commercianti erano autorizzati). La “mente” dell’operazione era il criminale Cornelio Saavedra, ideatore della “Pacificazione dell’Araucania” che, in seguito, fece uso della tattica della terra bruciata. Tenuto prigioniero nel carcere di Los Angeles (Cile), Orélie fu trattato brutalmente, confinato in un’angusta cella cupa e privato del cibo e delle cure mediche. Fu portato lì “per marcirci” ma, come scrisse lo stesso re nella testimonianza della macabra esperienza nelle prigioni di Saavedra: “La mia salute ne risentì subito e una brutta malattia mi costrinse a passare cinque mesi sulla mia brandina. Per sei settimane rimasi incosciente, con una febbre che mi fece vedere letteralmente la morte in faccia. Ero senza assistenza, tremante e in preda ai sudori, non avevo nulla per inumidirmi le labbra se non una brocca d’acqua gelata donatami da un prigioniero […] Finalmente la febbre si abbassò e, più tardi, sparì del tutto. Ero salvo. Ma a che prezzo! ...ero veramente dispiaciuto nel vedere il mio scarno viso…i miei capelli cominciarono a cadere così abbondantemente che mi sentii minacciato dalla totale calvizie…”. Il trattamento riservatogli da Saavedra alla fine furono la causa di una morte sofferta e prematura.

Al processo re Orèlie fu avvocato di se stesso e a una a una respinse le varie accuse a suo carico. Furono incapaci di emettere una condanna contro di lui poiché non riuscirono a trovare nessuna accusa, e il suo caso passò di tribunale in tribunale, dalla giurisdizione miliare a quella civile e di nuovo a quella militare. Volevano sbarazzarsi di lui poiché quella detenzione preventiva gli si stava ritorcendo contro, e la sua messa in libertà sarebbe stata una sconfitta per il governo e, soprattutto, il caso della sua detenzione e del suo trattamento in cella stava cominciando ad avere ripercussioni in Francia. Dichiararlo insano di mente si rivelò una soluzione vantaggiosa. Non solo così facendo avrebbero evitato ogni responsabilità e la loro incompetenza a condannarlo sulla base di accuse montate, ma questo si sposava perfettamente con lo scopo della loro propaganda. Nonostante i medici Burke e Reygnault avessero certificato che “ l’imputato è nel pieno possesso delle sue facoltà mentali”, le autorità insistettero nel dichiararlo “insano”. Fu mandato nel manicomio di Santiago dove, il 16 ottobre 1862, fu rilasciato e immediatamente espulso dal Cile.

I governi del Cile e dell’Argentina lo dichiararono “persona non-grata” e gli fu vietato di entrare in entrambi gli Stati. Tuttavia, egli ritornò per ben tre volte –“dopo tutto, gli huinca non avevano il controllo della nostra “mapu” (terra), e nemmeno della nostra gente, e la sua presenza nel territorio mapuche era benvenuta”. Sarebbe stato imprigionato tre volte, perseguitato, ridicolizzato e insultato, non solo dai suoi nemici, ma anche dai suoi compatrioti: “egli sacrificò la sua vita, i suoi possedimenti, qualsiasi cosa potesse essere sacrificata…la sua solidarietà fu ricambiata solo con la derisione popolare”, cita un documento.

Perché? Perché fece la “pazzia” di rompere con una tradizione per cui il disprezzo, l’inganno e il tradimento dei bianchi nei confronti degli indigeni era la norma. Se, in un altro momento della storia americana, re Orélie avesse combattuto accanto ai Creoli per la loro libertà e indipendenza, per il coraggio e la devozione che solo lui poteva dimostrare, sarebbe stato sulla lunga lista degli eroi, dei liberatori e delle figure nazionali la cui nazionalità non ha mai rappresentato una barriera all’inclusione.


Riferimenti: Archivi centrali della documentazione Mapuche.


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Fonte: Aukiñ No 16
Gennaio-Luglio 1990
Bollettino della Commissione Esterna Mapuche

Tradotto da Annalisa Dassisti

 

 

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